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Firmatari di un articolo scientifico

Quest’anno si è tenuta a Parma la 7° Conferenza Internazionale sulla Biodiversità Microbica. Il tema di questa edizione era “Agrifood microbiota as a tool for a sustainable future”. Suona decisamente interessante.

Perché ne parliamo?

La tesi e l’articolo

Lo scorso anno abbiamo ospitato una tesi dell’Università di Modena e Reggio Emilia (lo abbiamo già raccontato qui). Abbiamo lavorato con Jennifer e la Prof.ssa Solieri sui microorganismi che fermentano e affinano le nostre birre per caratterizzarli dal punto di vista tassonomico e tecnologico. Da questa ricerca è venuto fuori il nostro B.U.N.N.Y., il lievito “di casa”. Un grande risultato, non scontato, che è alla base della nostra recente linea di birre non sour: Tevla, Sevna e da poco Futa.

Bene, da questo lavoro è stato pubblicato un articolo scientifico, un paper dal titolo “Sour beer as bioreservoir of novel craft ale yeast cultures”. L’articolo (che trovate qui) è uscito sulla rivista Microorganisms, nella sezione Food Microbiology. Si tratta di una rivista scientifica mensile dell’MDPI ad accesso libero, con articoli verificati con peer-review. La tesi è parte di un filone di ricerca lungimirante, quello di trovare, classificare e stoccare nuove specie di microrganismi, utili non solo al mondo della birra, costruendo una biobanca di ceppi.

Per arricchire una biobanca escludendo tecniche OGM, le strade possibili sono 3:

  • ibridare lieviti esistenti, per crearne di nuovi, con caratteristiche ereditate dai “genitori”
  • crearne di nuovi con tecniche sì genomiche ma non OGM, tipo CRISPR, ZFN e TALEN (qui si aprirebbe un capitolo interessantissimo, ma evitiamo 🙂)
  • trovare ceppi già esistenti ma sconosciuti, scandagliando in lungo e in largo le loro tane naturali

Quella che abbiamo percorso con la tesi è stata proprio quest’ultima.

In effetti, la ricerca di nuove colture di lievito è molto efficace se svolta in ambienti “selvaggi”. Se le birre sour conferiscono attributi sensoriali unici al prodotto finale è proprio grazie alla grande varietà biologica che ospitano i tini e le botti delle nostre cantine. 

Ma perchè questo interesse scientifico?

Abbiamo già trattato i risultati pratici della tesi e di quale lievito di casa abbiamo poi scelto. Peculiare ad esempio il fatto che i nostri ceppi di S. cerevisiae producono composti organici volatili (VOC) dopo la fermentazione con una bassa quantità di 4-vinil guaiacolo (meno dell’0,4% del totale) e che al contrario è stata riscontrata presenza significativa di alcol feniletile, che contribuisce a un aroma fruttato. Quindi esteri aromatici desiderabili.

Trattando invece l’aspetto “dell’innovazione” sono stati identificati ben tre presunti ibridi di Saccharomyces Cerevisiae e Uvarum. Questi ceppi selvatici di S. cerevisiae hanno sporulato, generato prole monospore vitali e possiedono anche il gene STA1 (normalmente associato all’attività diastatica).

Tra gli altri ibridi poi Saccharomyces Cerevisiae e S. eubayanus e Saccharomyces cerevisiae e S. kudriavzevii sono frequentemente riscontrati nella birra artigianale. Molte birre in stile trappista del Belgio sono prodotte con ibridi di cerevisiae/kudriavzevii. Ciò potrebbe essere una conseguenza delle temperature invernali che favoriscono lieviti più criotolleranti.

Tra le curiosità maggiori si è scoperto che il ceppo di Pichia membranifaciens (molto presente nelle nostre birre) ha mostrato capacità di assimilare maltosio, nonostante la specie sia descritta come incapace di assimilare questo zucchero! La Pichia è spesso trovata nelle birre lambic e gueuze e nel vino, dove l’invecchiamento avviene in botti di legno. La capacità di formare un biofilm poi contribuisce alla lunga persistenza di questa specie sulla superficie di legno. E’ stato descritto fra l’altro che la Pichia potrebbe avere un ruolo nella biotrasformazione dei terpeni del luppolo (incluso il geraniolo).

I firmatari

Queste ed altre scoperte curiose sono state riportate nell’articolo, pubblicato da due importanti poli italiani: il Department of Life Sciences, University of Modena and Reggio Emilia e il National Biodiversity Future Center di Palermo. I firmatari sono: Chiara Nasuti, Jennifer Ruffini, Laura Sola, Mario Di Bacco, Stefano Raimondi, Francesco Candeliere, Lisa Solieri.

Da artigiani con un background ingegneristico (almeno il sottoscritto), siamo stati davvero molto orgogliosi di accettare la collaborazione, contribuire attivamente e vedere uno dei nostri nomi tra i firmatari di un articolo scientifico su una testata internazionale. Un lavoro che abbiamo stimolato, aiutato e compreso. Non ci era ancora mai capitato ed è qualcosa che aggiunge un altro tassello nella storia di Ca’ del Brado.

E sì che Yeast is the new hops!

Di chi è la penna dietro le nostre illustrazioni?

Era il 2015 e ci muovevamo su tanti fronti, ancora sotto copertura, per gettare le basi del nostro progetto di Cantina Brassicola. Business plan, approfondimenti sui lieviti, ricerca dello spazio e delle botti, assaggi di birre, agenzia delle dogane (…), il nome del progetto c’era. Mancavano del tutto le grafiche. 

A Sulmona, nel cuore dell’Abruzzo, lo stesso anno una band metalcore appena formata chiamata Remains in a View suonava e sprigionava tutta la carica immaginifica che chitarroni, bacchettate, vocals graffianti, t-shirt e fondali possono raggiungere.

A Ca’del Brado tentammo un primo contatto a tema grafico, chiedemmo un logo in bozza ad un bravo illustratore, senza mettere troppi paletti creativi, che arrivò rapido. Ma noi siamo esigenti e soprattutto siamo in 4 🙂 … Era di ottima fattura, ma volevamo qualcosa in più. Più simboli, più significato.

Quel cantante di Sulmona, mio conterraneo, lo conoscevo da un po’, anche io suonavo nel giro delle band rumorose. Scoprii che era lui a realizzare le illustrazioni e MySpace e poi Facebook fecero da vetrina. Ragazzo calmo e introverso e artista completo: growl, scream al microfono e penna dalla forte personalità. Io apprezzavo moltissimo il suo talento. Sapevo che lavorava per vari gruppi italiani ed esteri, non sapevo esattamente come.

Quindi ci provai: “ragazzi, io conosco un illustratore, è bravissimo, ma disegna belve indemoniate, teschi e zombie”… Il portfolio fece il suo lavoro e in quella occasione, come altre volte successe, con un po’ di audacia e di rischio (visto cosa chiedevamo e cosa era abituato a fare il ragazzo) demmo fiducia a un contatto della nostra rete personale. Sfida accettata, con curiosità e grinta. Il logo arrivò in bozza. Partimmo benissimo e con alcune revisioni fummo davvero soddisfatti. Col passaggio in china poi divenne una tavola davvero impressionante!

Davide Mancini, in arte Dart Works, è un artista completo. Palesemente dedito alle arti grafiche sin da bambino, ha studiato all’accademia di belle arti. Oggi, con la sua matita dà vita al suo universo fatto di orrorifico, fantastico e grottesco soprattutto per il giro della musica (copertine e merchandinig con estetica soprattutto metal, punk e hardcore) e da qualche anno anche con i tatuaggi, inoltre ha messo inchiostro anche su una linea di skateboard. È sempre più molto noto nel giro underground e se lo merita. Per il nostro mondo Ca’ del Brado ha firmato sinora tutte le nostre illustrazioni.

Il lavoro con Dave nasce sempre con un briefing, in cui settiamo una idea cardine: il nome della birra, l’immaginario oppure una allegoria per giocarci sopra. Messa a fuoco l’idea, lavora sulla bozza a matita che è un passaggio difficile: si capisce in un istante la potenzialità del disegno finito. Noi diamo qualche input e poi citandolo “finora non mi è mai stato impedito di mettere del mio anche in queste cose, quindi va bene così”. In effetti a volte insistiamo su cambiamenti o ritocchi 😉 sinora abbiamo sempre trovato la strada che soddisfacesse entrambi. La bozza prende quindi vita: si butta sulla lavagna luminosa e parte con l’inchiostro, mezzo con cui spazia dalle campiture piatte, al dotwork, passando per retini e tratteggio. Ultimata questa fase, la digitalizzazione serve a pulire, colorare e qualche volta correggere piccole imperfezioni.

Ricevuto il master in Ca’ del Brado, partiamo con l’editing dei layout: impaginazione per etichette bottiglie e fusti, medaglioni spine, design per il merchandising e per il sito, supporti cartacei e tanto altro ancora. Ad oggi, queste lavorazioni grafiche le gestiamo ancora internamente noi soci, è un lavoro che ci piace e snellisce il processo produttivo. Un domani chissà… Il birrificio evolve di continuo, con piede lento, ma mantenendo una filosofia stabile, di certo la collaborazione con Dave andrà avanti.

Dart Works lo trovate qui https://www.instagram.com/dart_works

Tesi di laurea episodio II, un lievito autoctono

Poche settimane fa Jennifer Ruffini si è laureata all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia con una tesi sui lieviti di Ca’ del Brado. E’ la seconda tesi ospitata nel birrificio e anche questa è stata ricca di contenuti, di stimoli e di sorprese!

A Biotecnologie Industriali fanno sul serio. La Prof.ssa Solieri è una professionista, di quelle rare, che oltre a fare il proprio lavoro in modo eccellente, trasmette il senso di motivazione a studenti e collaboratori lavorando con umiltà e dedizione. Da Pierangelista quale sono, aver conosciuto uno scienziato del settore pubblico di questo spessore è motivo di notevole orgoglio, oltre che di soddisfazione come partner.

Il titolo della tesi? “Unveiling phenotypic and genetic diversity in a wild brewing microbial population to drive innovation in craft beer starter cultures, che tradotto vuol dire che la tesi aveva 2 obiettivi: caratterizzare il microbiota dal punto di vista tassonomico e tecnologico che fermenta e affina le nostre birre e costituire una biobanca di ceppi, Saccharomyces e non, da usare per futuri utilizzi come coltura autoctona, quindi un lievito “di casa”.

Tanta roba: per Ca’ del Brado la filosofia è di lasciar fare la birra alla natura – accompagnandola e creando gli ambienti fermentativi opportuni -, questo progetto di tesi è quindi estremamente utile sia per continuare a studiare il mondo del lievito, sia per avere sempre maggiore consapevolezza del nostro processo. E perché no, anche per poterlo divulgare.

Ricerca applicata

Ca’ del Brado ha fornito dei sedimenti di fermentazione di tre birre rappresentative, una con uva, una con frutta e una saison. Non pensavamo che il lavoro di laboratorio sarebbe stato così esteso! Per creare una biobanca, dopo aver scelto un campione di cellule, le attività sono mooolto strutturate e Jennifer è stata un asso di precisione e metodo: bisogna isolare lieviti e batteri, differenziarli analizzandone il DNA con più tecniche, fare test di performance (microfermentazioni, capacità di sporificare e testare la vitalità delle spore). Per non farci mancare niente abbiamo lavorato sia su lieviti che su batteri lattici. La popolazione campione scelta da Jennifer e la Prof.ssa Solieri è stata di 50 lieviti e 7 batteri ed erano solo il 20% di tutti quelli isolati.

I risultati dello screening

L’isolamento è iniziato usando piastre di coltura di due tipi, WL (Wallerstein Laboratory) e YPDA, cioè due terreni, solido e liquido, per l’analisi quali-quantitativa della popolazione, con i quali si differenziano le cellule analizzando morfologia e colore delle cellule, come si vede dalla foto.

Analisi quali-quantitativa della popolazione

Poi arriva il DNA barcoding, una tecnica di microbiologia che serve a identificare a quale specie appartiene un individuo utilizzando un breve tratto del suo DNA. In pratica cerca una sequenza chiave, una “firma”, che faccia risalire alla specie dell’essere vivente. La ricerca di questa firma, nel caso dei lieviti, viene eseguita su alcuni database mondiali, come lo YeastID database (www.yeast-id.org) o il GenBank, che questa ricerca ha contribuito ad arricchire!

Lo screening ha portato all’identificazione di possibili 5 biotipi di lievito, poi confermati con ulteriori analisi (alcuni in foto sotto):

  • Saccharomyces cerevisiae / cariocanus / paradoxus (probablità 100%)
  • Saccharomyces bayanus / kudriavzevii / pastorianus / mikatae (probabilità 89%)
  • Dekkera/Brettanomyces bruxellensis (probabilità 83%)
  • Pichia membranifaciens (probabilità 73%)
  • Kluyveromyces blattae (probabilità 67%)

mentre per i batteri lattici, quello dominante è stato il Pediococcus damnosus/parvulus.

Alcuni biotipi isolati

Non male! Diciamo che sui primi tre lieviti potevamo scommetterci una botte (piena). Sugli ultimi due ben poco, anche se tutto torna considerando che la nostra contaminazione può tranquillamente arrivare dalle bucce delle uve e delle altre frutte.

Una cosa ancor più sorprendente delle specie scoperte è però è la loro quantità: il S. cerevisiae (col 70% degli isolati) è la specie dominante (per fortuna..), ma è seguita dalla Pichia membranifaciens col 16%! Solo dopo abbiamo il S. bayanus (6%) e il B. bruxellensis/lambicus (4%) e il B. anomalus/claussenii (4%).

Ripulire il campione

E se stessimo riscoprendo un lievito già noto? Del resto eravamo a caccia di lieviti autoctoni, quindi originali. Ci siamo subito messi all’opera con spirito di onestà scientifica per fare un ulteriore (lungo) lavoro di esclusione dei lieviti commerciali che utilizziamo in birrificio quando rinfreschiamo le colture (come i brett, i saison, il lievito da rifermentazione ecc). Abbiamo quindi raccolto i campioni che poi l’Università ha analizzato, per escluderli dai lieviti autoctoni candidati. Anche in questo frangente si è dimostrata l’altezza intellettuale del team universitario.

Si passa alla birra!

Ma come performano questi lieviti nel fare la birra? Beh era un aspetto importante 🙂

Quindi, ai fornelli… del lab. I test di assimilazione di maltosio e glucosio verificano intanto che i lieviti li consumino e ovviamente anche in quanto tempo. Un altro test è una vera e propria microfermentazione di mosto luppolato, Qui si traccia un po’ tutto quello che interessa sapere a un birrificio: i parametri cinetici come tempo di lag (A), tasso di fermentazione (B), massima efficienza di produzione di CO2 (C), attenuazione, flocculazione, ma anche la sporulazione (leggete sotto).

DA, D. anomala; DB, D./B. bruxellensis; SC, S. cerevisiae; SB, S. bayanus/S. uvarum

Dei lieviti analizzati, tra le curiosità maggiori si è scoperto che il nostro ceppo di Pichia membranifaciens ha mostrato capacità di assimilare maltosio, nonostante la specie sia descritta come incapace di assimilare questo zucchero! Alcuni dei lieviti hanno performance notevoli, ossia paragonabili a quelle dei lieviti commerciali. Quindi bingo! Potremmo usarli come ceppo “di casa” per fermentare una o più birre. Questo era in effetti il nostro principale obiettivo di breve termine ed è stata una fantastica e rassicurante notizia averlo saputo durante la tesi.

Sporulazione e vitalità delle spore: l’ibridazione

Queste due caratteristiche sono di grande interesse tecnico poiché lieviti ad alta sporulazione si ibridano facilmente tra specie diverse e generano nuove specie. Questa “tecnica non-OGM” potrebbe essere usata per generare ad esempio lieviti con fenotipi (le caratteristiche manifestate, non solo quelle contenute nei geni) che migliorano le performance di fermentazione. L’ibridazione si verifica se le spore sono vitali. E’ emerso che alcuni dei nostri cerevisiae hanno alta sporulazione, tuttavia non abbiamo approfondito questo campo di lavoro: abbiamo cercato invece di ottenere più dati sui lieviti già isolati e quindi “pronti da usare”.

Cosa faremo di questi risultati?

Le 3 fermentazioni pilota nelle nostre classiche flask tradizionali 🙂

La tesi ha avuto un esito decisamente promettente. Innanzitutto abbiamo capito quali organismi abbiamo attualmente in botte in almeno tre delle nostre birre più “spontanee”. Poi abbiamo stilato una classifica su come i migliori lieviti scovati si potrebbero comportare in fermentazione. I tre lieviti “candidati a vincere” la nostra classifica sono stati infatti mandati in laboratorio per una propagazione, per preparando quindi i test su campo, da fare in birrificio. I tre migliori lieviti sono stati un Saccharomyces cerevisiae, la Pichia membranifaciens e un Saccharomyces bayanus/uvarum. Abbiamo eseguito tre fermentazioni pilota su lotti da 5 litri di nostro mosto e fatti i dovuti riscontri “su pista”: attenuazione, flocculazione e tempi… e imbottigliato le tre birre. 

In realtà abbiamo anche eseguito gli assaggi. Ma per questi aggiornamenti vi rimandiamo al progetto Tevla, che sta ereditando e mettendo a frutto questo progetto utilizzando appunto il lievito autoctono Saccharomyces cerevisiae, che a seguito di sondaggio è stato nominato BUNNY (Bologna Unknown Native Naughty Yeast).

Una bella eredità

Ringraziamo la Prof.ssa Solieri e Jennifer per il grande contributo che hanno fornito a noi e crediamo anche al mondo birrario, perchè riteniamo di aver concluso una collaborazione con cui abbiamo sì ricevuto un grande valore per i nostri prodotti, ma abbiamo anche dato come Ca’ del Brado un caso di studio interessante alla ricerca e indirettamente generato dei risultati che hanno arricchito banche dati, banche lieviti e in generale la cultura scientifica del nostro settore e speriamo anche la qualità dei prodotti che noi e i nostri successori berremo con grande piacere!

Alla prossima tesi!

Tecniche di propagazione. Demiurghi da laboratorio

Idea originaria della propagazione in laboratorio

Molto probabilmente, i birrai a cui è passata per la testa l’idea di realizzare una Brett Beer si sono dapprima chiesti dove reperire un ceppo brett puro già pronto, approdando dopo varie difficoltà all’idea di farselo produrre da un laboratorio. Altrettanto probabilmente la metà di questi ha poi visto il tecnico di laboratorio fingere un malore dopo aver sentito “Brett[…]”.

In effetti, la propagazione “in casa” di lieviti in generale non è un mestiere per tutti, non tanto per la complessità del lavoro, quanto perché potrebbe essere ingiustificato, c’è un compromesso risorse/risultato da valutare. Usando i Brett però, il discorso si ribalta, e soprattutto i vincoli tecnici per volerlo/poterlo usare e poterlo propagare aumentano, da qui la scarsa diffusione di questi interessanti funghetti.

 

Costruzione del propagatore in garage

Abbiamo già raccontato perché abbiamo scelto di propagarci il lievito. Ora vi spieghiamo come lo facciamo. Mi interessa fare però una premessa: la nostra cantina è un ambiente fortemente cross-contaminato. Lo scambio microbiologico tra le botti è inevitabile ed è accettato, motivo per cui anche se è importante propagare un ceppo in purezza, alla fine della propagazione seguirà una contaminazione certa. Per questo, Ca’ del Brado può permettersi ricerca e sperimentazione sulle macchine e sulle tecniche, passi avanti e indietro, un laboratorio attrezzato in modo essenziale, in modo coerente con la filosofia brada.

 

Propagazione Batch vs Fed-batch

Nel prossimo articolo, già promesso tempo fa, vi parleremo di come abbiamo realizzato il propagatore. Oggi vogliamo parlarvi invece di come si comporta il lievito, nell’ottica del birraio, quando vogliamo replicarlo. In effetti, prima di progettare un sistema di propagazione bisogna aver capito di necessitarne, aver compreso cioè se è sufficiente lavorare con starter classici.

Beute in propagazione batch

La propagazione batch è una tecnica classica e diffusa, raccomandata per produrre starter dai produttori di lievito, perché è semplice da gestire. In sintesi, si tratta di una vera e propria mini-fermentazione. Nella propagazione batch infatti le cellule, poste in un substrato di mosto con un grado saccarometrico elevato, si replicano con una cinetica molto rapida, consumando ossigeno, carboidrati, proteine e grassi, abbassando il pH del mosto e producendo nel mentre anidride carbonica ed alcool. La replicazione, dopo un po’, termina per due motivi: o quando una qualsiasi di queste fonti viene esaurita (mai), oppure (sempre) quando la concentrazione di alcool supera la soglia tollerata dal lievito. Purtroppo, somministrare ossigeno, ad esempio usando un agitatore magnetico, aiuta ad espellere alcool e CO2, ma non risolve il problema: con la concentrazione di glucosio elevata, anche in presenza di ossigeno, il metabolismo del lievito non riesce ad essere aerobico ossidativo e quindi produce ugualmente alcool. Si chiama effetto Crabtree. Ecco spiegato perché la propagazione batch è una sorta di fermentazione.

Per fortuna (o meglio per natura), il lievito si è evoluto per sopravvivere anche non disponendo di molto glucosio ed in modo continuo (pensateci, la frutta sugli alberi non è sempre matura…). Quando una cellula di lievito dispone di poco glucosio (circa sotto 0.1 grammi/litro) e ossigeno, riesce a replicarsi, seppure lentamente, in modo continuo e non fermentativo, quindi producendo pochissimo alcool. Si chiama effetto Pasteur. Il metabolismo aerobico si presta quindi a produrre biomassa continuamente, dando al lievito poco glucosio, e tenendolo in basse concentrazioni. Per farlo, del substrato a base di mosto viene iniettato continuamente, per rimpiazzare il nutrimento consumato. E’ per questo che la tecnica è chiamata fed-batch. Fantastico, mi butto sul fed-batch! Beh, purtroppo c’è un limite. Essendo lento, per produrre un target di cellule, il processo può durare molto. Ciò implica che dopo un po’, le prime generazioni di cellule si saranno replicate moltissime volte, e la popolazione di cellule “anziane”, con membrane cellulari assottigliate e danneggiate, aumenta: i bio-guru la chiamano senescenza della popolazione. Non è il top: per avere buone fermentazioni servono lieviti vitali.

Quindi che si fa? Noi, ed altri, abbiamo scelto un mix delle due tecniche. Con il batch otteniamo in poco tempo e tollerando l’arresto della crescita una certa quantità di cellule di lievito, che poi passiamo in fed-batch per raggiungere il target in alcuni giorni, limitando la senescenza.

 

Assemblaggio del propagatore, Mario Quark ed Enrico Govoni di Vecchia Orsa

Ma entriamo nei dettagli. La  propagazione inizia dal ceppo puro (o presunto tale: ho ricevuto da noti produttori, di cui non farò il nome, buste di Brett non scadute parecchio contaminate da batteri). Il ceppo di partenza è una popolazione variabile da 10 a 300 miliardi di cellule, a seconda che si tratti di Brett o Sacc e dei litri da inoculare. La biomassa iniziale viene dapprima propagata con propagazioni a batch, in beute di borosilicato, con due step successivi di 24 ore ognuno. Nello step 1 uno usiamo due beute con 500 ml di substrato ognuna, su agitatore magnetico e temperatura controllata, normalmente sopra i 25 gradi. Nello step 2 usiamo 4 beute, con 2 litri di substrato ognuna. L’approccio a due step ha lo scopo di diluire l’alcool prodotto e far ripartire la propagazione. Il substrato è composto da estratto liquido di malto e nutrienti, e la OG del mosto dipende dalla ricetta di propagazione, in generale varia dai 20 ai 50 grammi/litro di zucchero. Si passa quindi al fed-batch: la replicazione nel propagatore fed-batch da 50 litri, di nostra realizzazione, dura dai 3 ai 5 giorni. All’inizio, il lievito viene posto nel bioreattore e diluito con acqua e nutrienti. La concentrazione di glucosio nel tempo si abbassa, quindi ogni ora viene iniettata una quantità di substrato, che rimpiazza il mosto consumato. Ricircoli continui e immissione di ossigeno puro tengono la biomassa in sospensione e favoriscono la fuoriuscita di CO2 ed alcool.

Per orchestrare la propagazione ci serviamo di fogli di calcolo, che per ogni stadio del processo e per ogni lievito stimano la dinamica del processo e calcolano le quantità di gas e liquidi da utilizzare.

Rimandiamo i più curiosi alla prossima puntata.
Nel mentre, abbandonatevi alle nostre bevute selvagge!

 

 

Propagarsi il lievito. Ovvero come complicarsi la vita

“Facciamo delle Brett Ale!”
“Magico! E il brett?”
“Facciamocelo Fare!”
“Facciamocelo noi!”

La propagazione del lievito è un tema sicuramente caratterizzante per Ca’ del Brado, da un lato perché saper gestire il lievito è secondo noi parte integrante del lavoro di cantinieri di birra, dall’altro perché apre delle possibilità di sperimentazione altrimenti precluse a chi è immune al fascino del lievito liquido.

 

Inoculo di Brettanomyces Lambicus in foudre

Noi di Ca’ del Brado abbiamo scelto un sentiero che fa spola tra la tecnica e la deriva naturale che il tempo lascia a lieviti e batteri. La chiave del nostro lavoro è avviare nella giusta direzione il lavoro che la natura sa fare benissimo da sempre, cioè fermentare frutta e cereali.

 

Inizio delle propagazioni. Alcune beute ed alcune fiale,

Molte delle nostre birre (le Piè Veloce ed Invernomuto ad esempio) vengono fermentate inizialmente (fermentazione primaria) con una parte di lievito recuperato dal fondo delle botti ed una parte di lievito fresco, propagato da ceppo puro. Questa scelta ha lo scopo di mantenere una consistenza nelle produzioni nel tempo, ed insieme lasciare il nostro marchio nei gusti e negli aromi delle nostre etichette. La propagazione del lievito avviene usando una tecnica mista di propagazioni dette a batch e a fed-batch, che spieghiamo molto bene in questo articolo. In ogni caso sono due tecniche diverse, ma entrambe servono a far replicare i nostri funghi preferiti (i lieviti) in modo possibilmente efficace, cioè raggiungendo il target di cellule necessario, efficiente, cioè usando attrezzi e materie prime non troppo dispendiose, controllato, pulito e replicabile.

 

Inoculo di Brettanomyces Bruxellensis dal propagatore

Mi spiego meglio. Il pitching rate di cui necessitiamo è variabile, proprio perché il lievito recuperato da fermentazioni precedenti fa una parte del lavoro, e si aggira su una frazione del classico milione di cellule per millilitro per grado Plato (mln cells/ml/°P). La propagazione del levito puro viene condotta dapprima in beute di borosilicato, per poi finire grazie ad un prototipo di propagatore da 50 litri, di nostra realizzazione (articolo ad hoc anche per lui… promesso). Uno degli scopi del propagatore è infatti poter scegliere quali ceppi di lievito adottare, anche quelli commercializzati in volumi molto piccoli (pensate alle fiale o alle buste da 35/40 ml), e replicare quindi le cellule fino al numero necessario. Ciò fra l’altro apre la strada ad innumerevoli sperimentazioni di ceppi esotici. In realtà anche gli amichevoli saccaromiceti passano per per grinfie del propagatore… L’altro scopo della propagazione condotta in autonomia è evitare di rifornirci di grosse quantità di lievito liquido, che possa aver subito trasporti lunghi o stressanti.

L’efficienza nella propagazione deriva dal poter usare dei volumi di starter piccoli e nel poter lavorare (grazie al fed-batch) con un propagatore anch’esso relativamente piccolo. Per verificare che tutto stia procedendo correttamente ci siamo dovuti armare sin dall’inizio di microscopio e camera di conta, oltre che di pazienza, per campionare più o meno spesso il nostro mosto in propagazione. La conta cellulare ci dà una stima del numero di cellule che siamo riusciti ad ottenere man mano, ed una idea della sua vitalità, quindi “prontezza a fermentare”.

Infine, si parlava di un processo pulito e replicabile? Già, perché se quel lievito propagato, che a Ca’ del Brado lavora in squadra con il lievito recuperato, risulta contaminato e sempre diverso, poteva andar bene prima dell’invenzione della ruota (come disse qualcuno). Nella nostra cantina è all’affinamento, non alla fermentazione, che lasciamo prendere la propria strada, lasciando spazio all’affascinante variabilità che si manifesta sempre, governata da ciò che permea il legno, e libera da vincoli e tecnicismi. Il tempo e gli assaggi ci diranno quando la birra è pronta.

E già, yeast is the new hop…

 

 

Lancio Piè Veloce Brux

Carissimi bevitori, manigoldi, donzelle e appassionati,
per la nostra cantina brassicola è finalmente giunto il momento di aprire il sipario: Ca’ del Brado è infatti lieta di presentare la prima birra e quale miglior modo di farlo se non assieme ai suoi publican preferiti!
 

 

Il prodotto in questione è la nostra Piè Veloce Brux: una Brett Ale con luppolatura delicata di stampo americano, fermentata esclusivamente con Brettanomyces Bruxellensis e affinata per più di due mesi in grande botte di rovere. Trovate maggiori dettagli qui: Piè Veloce Brux
I fusti saranno attaccati in anteprima nella giornata di mercoledì 14 dicembre in tutti i seguenti locali amici (in ordine alfabetico):

Aula – birra e merenda (San Giovanni in Persiceto)
BiFor – Birra Forlì (Forlì)
Donkey Pub (Vedelago)
La BIRROteca – The Drunken Duck (Noventa Vicentina)
The drunken duck le più meglio birre (Quinto Vicentino)
Harvest Pub (Bologna)
Il Punto (Bologna)
Lortica (Bologna)
Ranzani13 (Bologna)
Storiedipinte – Pizza, Craft Beer and Burger (San Lazzaro)
Wild Rover Irish Pub (Manzolino)
Xander Beer (Brescia)
Zapap Pratello (Bologna)
Zona Artigianale – Pizza, Burgers & Craft Beers (Modena)

(lista in aggiornamento)

 

Sono davvero poche (soprattutto in Italia) le birre fermentate esclusivamente mediante Bretta fin dalla primaria e non vediamo l’ora di sapere cosa ne pensate. Noi ci lavoriamo da parecchio e ne siamo entusiasti!

 

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Lo staff di Ca’ del Brado (assieme al loro bradipo totemico e ad un esercito di brettanomiceti), girerà tutta la sera per i vari locali, quindi si brinderà assieme con chi sarà in giro, in una grande e diffusa festa del Bretta!

Cheers e a presto,
Ca’ del Brado

 

Ritorno al futuro. Le Brett Ales

Il lievito è il luppolo del futuro.

I tempi dell’amaro ad ogni costo, in tutti gli stili birrari, stanno tramontando. L’attenzione dei birrofili (ma anche dell’industria, vedi il caso H41)  si sta spostando sempre più sull’ingrediente meno visibile ma forse più caratterizzante della birra, il lievito.

Si dice che non è il birraio a fare la birra, ma il lievito, una sacrosanta verità. Da homebrewer non apprezzavo quanto complesso e fondamentale fosse il quarto ingrediente nel processo brassicolo. Maneggiare il lievito era qualcosa di molto vicino ad un rito religioso più che una pratica produttiva: si trovano online raccomandazioni non ben spiegate su come idratarlo, conservarlo, inocularlo. Tuttavia, quando la passione per la birra ha incontrato il mondo delle birre selvagge, sono esplose nella mia testa innumerevoli domande sul mondo del “birraio monocellulare”.

Il lievito è un organismo unicellulare che appartiene al regno dei funghi. E’ l’ingrediente che trasforma gli zuccheri presenti nel mosto di birra in alcool (etanolo) e gas (anidride carbonica). Le due principali specie di lieviti utilizzate nel processo di produzione della birra sono il Saccharomyces cerevisiae ed il Saccharomyces pastorianus. Su queste sole due specie si potrebbero scrivere delle bibbie, ma a noi di Ca’ del Brado è piaciuto camminare sui confini e studiare e sperimentare anche altre specie. Ad esempio i brettanomiceti.

 

Fiale con diverse specie di Brett
Fiale con diverse specie di Brett

Il Brettanomyces è una specie di lievito (non è un batterio come molti credono!) considerata per secoli un lievito dannoso nella produzione del vino, mentre viene temuto e rispettato nel mondo delle fermentazioni di birra, in particolare in quelle spontanee o miste. Il Brett (così chiamato dagli amici) è un lievito selvaggio che si trova praticamente ovunque, dall’aria, agli oggetti che maneggiamo, sulle pareti delle stanze, per cui è sempre a contatto con la birra. Ma quindi come riesco a fare una Blanche pulita? Di solito i lieviti “clean”, selezionati nei secoli per fare da bulldozer fermentativi, prendono il sopravvento in poche ore e il Brett resta buono. Tuttavia quando viene messo in condizioni di esprimersi, si apre un mondo. Il Brett può fungere sia da lievito principale (fermentazione primaria) che da lievito di affinamento (fermentazione secondaria). Di gran lunga più usato nelle secondarie, qui sprigiona il suo poverbiale funky o “sentore Orval” (dal nome della birra più famosa che lo impiega), qualcosa di vicino al cuoio, stallatico, animale selvatico, sella di cavallo. Sentori grandiosi!

Il Brett può essere però utilizzato come lievito principale, dando origine allo stile Brett Beer, o 100% Brettanomyces. Le Brett Beer sono diventate uno stile riconosciuto dal 2015, quando il BJCP le ha introdotte nella categoria American Wild Ale. Possono in realtà essere una variante di tutte quelle ale dove è sensato dare risalto agli esteri fruttati e a sentori rustici prodotti, di solito pale ale o american pale ale. Si tratta di birre ancora poco diffuse, uno dei motivi è che è difficile gestirlo, dato che la specie è ancora poco studiata nella biologia, o meglio è indagata per trovare i modi più efficaci di distruggerla quando attacca il vino. E lo fa spesso! Infatti è facilissimo che esso infesti un birrificio “clean” e ne prenda possesso, se non si prendono precise precauzioni. Quando lo si cerca invece, si tratta di una specie molto versatile poiché, anche se conduce fermentazioni un po’ pigre, a mio avviso è capace di sviluppare una complessità di esteri fruttati che nessun altro lievito riesce a produrre. Come per i Saccharomyces, anche i Brett si dividono in diversi ceppi, che selezionati o combinati a dovere regalano alla birra un ventaglio di odori e sapori molto variegato.

 

conta del lievito
Conta cellule lievito in lab

La difficoltà nel brassare una Brett Ale si trova principalmente nel domare il carattere un po’ anarchico e un po’ pigro di questo lievito, nel gestire la scarsità di gusto-tatto (mouthfeel) causata dalla non produzione del Brett di glicerolo, e soprattutto dall’elevato pitching rate utile (ma non imprescindibile) che garantisce alla fermentazione di avere luogo in maniera ottimale. In commercio, il Brett si trova in piccole fiale, da qui la necessità di replicare (propagare) l’amico Brett in autonomia. Questa esigenza ha spinto noi di Ca’ del Brado a progettare e costruire un propagatore per questo scopo. Ma di questo parleremo in un’altra occasione…

Ultima osservazione d’obbligo: il brettanomiceto è comunemente citato nel mondo delle fermentazioni spontanee o miste, quindi associato al mondo dell’acido. Le Brett Ale però non sono birre acide. Se la birra non viene eccessivamente ossigenata durante l’affinamento, l’acidità resterà controllata. La Brett non è neanche necessariamente una birra con sentori animaleschi, anche se l’evoluzione in bottiglia molto probabilmente ne produrrà, col passare del tempo. Noi di Ca’ del Brado abbiamo deciso di scostarci un po’ dalle ricette “100% Brett” utilizzate generalmente dai birrai e dagli homebrewer americani, che spingono molto sulla luppolatura e sul dryhopping, nascondendo il carattere del brett (di fatto molte ricette prevedono l’utilizzo del “Brett Trois”, un finto Brett.).

 

inoculo barrique
Inoculo in barrique

Le nostre ricette cercano di esaltare al massimo la tipicità di questi lieviti, utilizzando un’alta percentuale di frumento e di segale e coadiuvando la fermentazione con batteri lattici, presenti nelle grandi botti di rovere nelle quali queste birre maturano. Birra molto versatile, una Brett va compresa: se inizialmente può possedere una freschezza inarrivabile per altri stili, con il tempo e con il lavorare del lievito, lento ma inesorabile, i sentori si trasformano da fruttati tropicali, di ananas, mango, pesca, a speziature più rustiche e secche, ma altrettanto interessanti. Per capire queste birre bisogna provarle fresche, magari acquistandone 3 bottiglie, e bevendole ogni due mesi, per apprezzare l’evoluzione che una stessa identica creazione avrà in breve tempo. Per questo vi invitiamo a provare la Piè Veloce Lambicus e la Piè Veloce Brux e a comunicarci cosa ne pensate.
Quando la Poretti uscirà con la 10 Lieviti ricordatevi che vi avevamo avvisati!