Tesi di laurea episodio II, un lievito autoctono

Poche settimane fa Jennifer Ruffini si è laureata all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia con una tesi sui lieviti di Ca’ del Brado. E’ la seconda tesi ospitata nel birrificio e anche questa è stata ricca di contenuti, di stimoli e di sorprese!

A Biotecnologie Industriali fanno sul serio. La Prof.ssa Solieri è una professionista, di quelle rare, che oltre a fare il proprio lavoro in modo eccellente, trasmette il senso di motivazione a studenti e collaboratori lavorando con umiltà e dedizione. Da Pierangelista quale sono, aver conosciuto uno scienziato del settore pubblico di questo spessore è motivo di notevole orgoglio, oltre che di soddisfazione come partner.

Il titolo della tesi? “Unveiling phenotypic and genetic diversity in a wild brewing microbial population to drive innovation in craft beer starter cultures, che tradotto vuol dire che la tesi aveva 2 obiettivi: caratterizzare il microbiota dal punto di vista tassonomico e tecnologico che fermenta e affina le nostre birre e costituire una biobanca di ceppi, Saccharomyces e non, da usare per futuri utilizzi come coltura autoctona, quindi un lievito “di casa”.

Tanta roba: per Ca’ del Brado la filosofia è di lasciar fare la birra alla natura – accompagnandola e creando gli ambienti fermentativi opportuni -, questo progetto di tesi è quindi estremamente utile sia per continuare a studiare il mondo del lievito, sia per avere sempre maggiore consapevolezza del nostro processo. E perché no, anche per poterlo divulgare.

Ricerca applicata

Ca’ del Brado ha fornito dei sedimenti di fermentazione di tre birre rappresentative, una con uva, una con frutta e una saison. Non pensavamo che il lavoro di laboratorio sarebbe stato così esteso! Per creare una biobanca, dopo aver scelto un campione di cellule, le attività sono mooolto strutturate e Jennifer è stata un asso di precisione e metodo: bisogna isolare lieviti e batteri, differenziarli analizzandone il DNA con più tecniche, fare test di performance (microfermentazioni, capacità di sporificare e testare la vitalità delle spore). Per non farci mancare niente abbiamo lavorato sia su lieviti che su batteri lattici. La popolazione campione scelta da Jennifer e la Prof.ssa Solieri è stata di 50 lieviti e 7 batteri ed erano solo il 20% di tutti quelli isolati.

I risultati dello screening

L’isolamento è iniziato usando piastre di coltura di due tipi, WL (Wallerstein Laboratory) e YPDA, cioè due terreni, solido e liquido, per l’analisi quali-quantitativa della popolazione, con i quali si differenziano le cellule analizzando morfologia e colore delle cellule, come si vede dalla foto.

Analisi quali-quantitativa della popolazione

Poi arriva il DNA barcoding, una tecnica di microbiologia che serve a identificare a quale specie appartiene un individuo utilizzando un breve tratto del suo DNA. In pratica cerca una sequenza chiave, una “firma”, che faccia risalire alla specie dell’essere vivente. La ricerca di questa firma, nel caso dei lieviti, viene eseguita su alcuni database mondiali, come lo YeastID database (www.yeast-id.org) o il GenBank, che questa ricerca ha contribuito ad arricchire!

Lo screening ha portato all’identificazione di possibili 5 biotipi di lievito, poi confermati con ulteriori analisi (alcuni in foto sotto):

  • Saccharomyces cerevisiae / cariocanus / paradoxus (probablità 100%)
  • Saccharomyces bayanus / kudriavzevii / pastorianus / mikatae (probabilità 89%)
  • Dekkera/Brettanomyces bruxellensis (probabilità 83%)
  • Pichia membranifaciens (probabilità 73%)
  • Kluyveromyces blattae (probabilità 67%)

mentre per i batteri lattici, quello dominante è stato il Pediococcus damnosus/parvulus.

Alcuni biotipi isolati

Non male! Diciamo che sui primi tre lieviti potevamo scommetterci una botte (piena). Sugli ultimi due ben poco, anche se tutto torna considerando che la nostra contaminazione può tranquillamente arrivare dalle bucce delle uve e delle altre frutte.

Una cosa ancor più sorprendente delle specie scoperte è però è la loro quantità: il S. cerevisiae (col 70% degli isolati) è la specie dominante (per fortuna..), ma è seguita dalla Pichia membranifaciens col 16%! Solo dopo abbiamo il S. bayanus (6%) e il B. bruxellensis/lambicus (4%) e il B. anomalus/claussenii (4%).

Ripulire il campione

E se stessimo riscoprendo un lievito già noto? Del resto eravamo a caccia di lieviti autoctoni, quindi originali. Ci siamo subito messi all’opera con spirito di onestà scientifica per fare un ulteriore (lungo) lavoro di esclusione dei lieviti commerciali che utilizziamo in birrificio quando rinfreschiamo le colture (come i brett, i saison, il lievito da rifermentazione ecc). Abbiamo quindi raccolto i campioni che poi l’Università ha analizzato, per escluderli dai lieviti autoctoni candidati. Anche in questo frangente si è dimostrata l’altezza intellettuale del team universitario.

Si passa alla birra!

Ma come performano questi lieviti nel fare la birra? Beh era un aspetto importante 🙂

Quindi, ai fornelli… del lab. I test di assimilazione di maltosio e glucosio verificano intanto che i lieviti li consumino e ovviamente anche in quanto tempo. Un altro test è una vera e propria microfermentazione di mosto luppolato, Qui si traccia un po’ tutto quello che interessa sapere a un birrificio: i parametri cinetici come tempo di lag (A), tasso di fermentazione (B), massima efficienza di produzione di CO2 (C), attenuazione, flocculazione, ma anche la sporulazione (leggete sotto).

DA, D. anomala; DB, D./B. bruxellensis; SC, S. cerevisiae; SB, S. bayanus/S. uvarum

Dei lieviti analizzati, tra le curiosità maggiori si è scoperto che il nostro ceppo di Pichia membranifaciens ha mostrato capacità di assimilare maltosio, nonostante la specie sia descritta come incapace di assimilare questo zucchero! Alcuni dei lieviti hanno performance notevoli, ossia paragonabili a quelle dei lieviti commerciali. Quindi bingo! Potremmo usarli come ceppo “di casa” per fermentare una o più birre. Questo era in effetti il nostro principale obiettivo di breve termine ed è stata una fantastica e rassicurante notizia averlo saputo durante la tesi.

Sporulazione e vitalità delle spore: l’ibridazione

Queste due caratteristiche sono di grande interesse tecnico poiché lieviti ad alta sporulazione si ibridano facilmente tra specie diverse e generano nuove specie. Questa “tecnica non-OGM” potrebbe essere usata per generare ad esempio lieviti con fenotipi (le caratteristiche manifestate, non solo quelle contenute nei geni) che migliorano le performance di fermentazione. L’ibridazione si verifica se le spore sono vitali. E’ emerso che alcuni dei nostri cerevisiae hanno alta sporulazione, tuttavia non abbiamo approfondito questo campo di lavoro: abbiamo cercato invece di ottenere più dati sui lieviti già isolati e quindi “pronti da usare”.

Cosa faremo di questi risultati?

Le 3 fermentazioni pilota nelle nostre classiche flask tradizionali 🙂

La tesi ha avuto un esito decisamente promettente. Innanzitutto abbiamo capito quali organismi abbiamo attualmente in botte in almeno tre delle nostre birre più “spontanee”. Poi abbiamo stilato una classifica su come i migliori lieviti scovati si potrebbero comportare in fermentazione. I tre lieviti “candidati a vincere” la nostra classifica sono stati infatti mandati in laboratorio per una propagazione, per preparando quindi i test su campo, da fare in birrificio. I tre migliori lieviti sono stati un Saccharomyces cerevisiae, la Pichia membranifaciens e un Saccharomyces bayanus/uvarum. Abbiamo eseguito tre fermentazioni pilota su lotti da 5 litri di nostro mosto e fatti i dovuti riscontri “su pista”: attenuazione, flocculazione e tempi… e imbottigliato le tre birre. 

In realtà abbiamo anche eseguito gli assaggi. Ma per questi aggiornamenti vi rimandiamo al progetto Tevla, che sta ereditando e mettendo a frutto questo progetto utilizzando appunto il lievito autoctono Saccharomyces cerevisiae, che a seguito di sondaggio è stato nominato BUNNY (Bologna Unknown Native Naughty Yeast).

Una bella eredità

Ringraziamo la Prof.ssa Solieri e Jennifer per il grande contributo che hanno fornito a noi e crediamo anche al mondo birrario, perchè riteniamo di aver concluso una collaborazione con cui abbiamo sì ricevuto un grande valore per i nostri prodotti, ma abbiamo anche dato come Ca’ del Brado un caso di studio interessante alla ricerca e indirettamente generato dei risultati che hanno arricchito banche dati, banche lieviti e in generale la cultura scientifica del nostro settore e speriamo anche la qualità dei prodotti che noi e i nostri successori berremo con grande piacere!

Alla prossima tesi!

One comment on “Tesi di laurea episodio II, un lievito autoctono”

  1. […] “pulita” dell’azienda dopo cinque anni di attività, fermentata in acciaio con un lievito autoctono battezzato Bunny e isolato in loco grazie alla collaborazione con l’Università degli Studi di Modena e Reggio […]

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